Oggi ho dovuto rifiutare l'ennesimo colloquio di lavoro. La causa è sempre la stessa, quella che a fine 2013 mi portò a dimettermi. Da allora nulla è cambiato, anzi se vogliamo le cose sono peggiorate.

Non posso permettermi un full time, le condizioni familiari non me lo consentono, non posso stare fuori casa 12 ore. Cerco un part time, ma nel mio settore è come cercare di trasformare il piombo in oro. Il mio limite si chiama assenza di supporto, che significa avere qualcuno che si occupi di mia figlia quando l'asilo chiude (che la vada a prendere e stia con lei quando esce) o ci sono le vacanze, quando è a casa malata, quando io non posso esserci, perché se io lavorassi come ai tempi in cui ero nubile e senza figli, prima delle 20, 21 non sarei mai a casa.
Mio marito lavora su turni e questo rende le cose ancora più complicate. Anche la carta dei nonni è indisponibile.

Sono forzatamente fuori dal mondo del lavoro, pur avendo le potenzialità per rientrare e una qualifica ricercata.
È tutto il resto che non torna. Ecco perché non sopporto le nude statistiche, che non riescono a spiegare questo tipo di realtà.
Siamo fuori perché non ci sono alternative, siamo fuori qualificate o meno, siamo fuori perché il mercato ci tiene fuori.

La relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri 2014 (ai sensi della legge 151 del 2001), presentata il 25 giugno scorso, ci racconta che il numero delle lavoratrici madri dimissionarie è in flessione, un -3%, mentre aumenta quello dei padri rispetto al 2013. La crisi economica non smette di colpire e lo si vede sul totale.
Il numero complessivo resta in crescita (+3%), 26.333 il numero delle dimissioni /risoluzioni consensuali convalidate dagli Uffici territoriali del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali (per genitori con figli sotto i 3 anni). L'85% è composto da madri, segno evidente di uno squilibrio di genere nei carichi di cura. 24.319 le dimissioni del 2014.

Agghiacciante il dato anagrafico: la fascia più colpita è quella tra i 26 e i 35 anni, ancora in crescita.
Un mare di potenzialità azzerate e interrotte all'improvviso, quando potrebbero dare il meglio di sé. Inoltre colpisce il dato relativo all'anzianità di servizio di queste lavoratrici madri, le più colpite sono anche quelle assunte da meno tempo, sotto i tre anni. Vi racconto una ipotesi, tanto per formulare una possibile spiegazione del fenomeno.

Dopo anni di contratti precari, riesci a trovare una situazione più stabile, inizi ad avere una certa età, magari hai un compagno, vorresti evitare di arrivare a 40 anni e scoprire che hai difficoltà a restare incinta. Decidi di mettere al mondo un figlio e poi ti accorgi che il mondo del lavoro non ha più bisogno di te, solo perché ora hai prole. Questa sorte colpisce tutte, tutte quelle famiglie e donne particolare che non hanno alternative. Colpisce anche il numero elevato di donne extracomunitarie (10%) o provenienti da paesi dell'Ue (7%).
Siamo tutte sulla stessa barca, senza diritti, tutele, supporti.

Poco ci allevia il fatto di non essere casi rari, ma di essere in buona o meglio malaugurata compagnia: 1.200 a causa dell'elevata incidenza dei costi di assistenza del neonato; 3.456 per mancato accoglimento al nido; 4.051 per assenza di parenti di supporto. 14.379 gli abbandoni dopo il primo figlio, 8.707 quelli riconducibili alla incompatibilità tra vita lavorativa e cura della prole. Queste porzioni sono in crescita. Segno di una situazione che non tende a migliorare, che si inasprisce di anno in anno. Numeri grossi al Nord, nonostante si guardi sempre ai servizi efficienti del Nord. Forse la rete di solidarietà e di mutuo aiuto a volte serve più di un nido. 1.465 mollano perché non hanno potuto accedere al part time o a un orario flessibile.

Sono le piccole medie imprese dei servizi e del commercio che costituiscono la fetta maggiore di perdita "consensuale" di forza lavoro. A questo punto dopo aver ripetuto numerose volte la parola consensuale, devo fermarmi per eccesso di bile.

Chiaramente il mio consenso ha un peso e un valore diverso rispetto a quello del mio datore di lavoro, soprattutto se la mia decisione di dimettermi è causata da un rifiuto dell'impresa di venire incontro alle mie esigenze. A volte basterebbe una flessibilità temporanea, un segnale che tu non sei solo un numero, un peso, una incomoda dipendente che ha osato figliare.
Quindi se il consenso implica un accordo delle parti, occorre sottolineare come in moltissimi casi esso sia esorto, senza via di fuga.
Quindi, se io non sono in grado di essere sullo stesso piano del mio datore di lavoro, uno stato civile e di diritto dovrebbe essere in grado di intervenire per tutelare la parte debole e riequilibrare i due attori contrattuali.

Dovrebbe essere premura di uno stato farsi carico di queste diseguaglianze e non limitarsi solamente a relazionarci annualmente su quante nuove donne si trovano davanti al bivio.
Se tu in qualche modo estorci il mio consenso, quel contratto o accordo è annullabile. Questo accade in tutti i casi, ma non sembra valere per tutti i casi cui una donna non ha altra scelta e viene di fatto portata alle dimissioni.
Se vuoi, fai vertenza e son cavoli tuoi. Oppure ti puoi rivolgere alla Consigliera regionale di parità. Gli oneri ricadono sulla parte debole.
Questo lo trovo inaccettabile.

98 i casi in totale di mancata convalida, negata dalle direzioni territoriali del lavoro: una crescita che deve far riflettere. Non che le convalide in generale ci possano far dormire tranquilli, anzi, trovo tutto questo iter da brividi e una pantomima indegna per un paese civile. I diritti non ammettono compromessi e non sono suscettibili di flessibilità.

Io non me ne sono ancora fatta una ragione e non ho intenzione di farmela o di starmi zitta.
Buona contrattazione squilibrata? No grazie.

Questo è aggravato anche dal fatto che in alcune realtà aziendali il sindacato è debole, se non assente.
La mancanza di tutele dovremmo avvertirla al momento giusto e non solo quando ci troviamo di fronte ai problemi.

Mamme e non, perché poi i problemi ce li abbiamo tutte. Quando ci ribelleremo in massa e ci sentiremo unite tutte nella stessa battaglia?

Articolo di Simona Sforza
Twitter @sforzasimona

Ritratto di Simona Sforza

Posted by Simona Sforza

Blogger, femminista e attivista politica. Pugliese trapiantata al nord. Felicemente mamma e moglie. Laureata in scienze politiche, con tesi in filosofia politica. La scrittura e le parole sono sempre state la sua passione: si occupa principalmente di questioni di genere, con particolare attenzione alle tematiche del lavoro, della salute e dei diritti.