Scelgo di aprire questa mia riflessione con voi con due contributi della Senatrice Liliana Segre.

"Ricordo ancora quando mi dissero che non potevo più andare a lezione - ha raccontato la senatrice agli studenti - Non capivo il perché e continuavo a chiederne il motivo ai miei genitori. È stato terribile sentirsi additare per la strada dagli altri bambini che dicevano 'Guarda, quella è la Segre, quella che hanno cacciato da scuola perché è ebrea'. Ancora oggi, nonostante tutto, alcune mie conoscenti, signore anziane come me, si parlano tra loro dicendo 'Conosci la Segre, la signora ebrea', e devo dire con rammarico che ancora oggi mi sento quella bambina cacciata da scuola a causa delle leggi razziali. Un'indifferenza che non mi ha mai abbandonato, per tutta la vita". (fonte)

La Senatrice a vita ha raccontato agli studenti di Milano la sua storia, dall’esclusione dalla scuola in seconda elementare nel 1938 in seguito alle leggi razziali, alla fuga con il padre in Svizzera; e poi la deportazione dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano. In una Italia che vara le leggi razziali nel 1938 e sceglie di condividere l'orrore compiuto e intrapreso da Hitler.

La Senatrice in un altro suo intervento, rievoca:

“Nel 2020 coincide l'ottantaduesimo anniversario delle leggi razziste del 1938, e ancora nel Paese emergono diffusi segnali della rinascita di correnti razziste, xenofobe, nazionaliste, quando non apertamente fasciste o neonaziste. Questo è motivo di grande sconforto. Ci eravamo illusi, allora, che le dottrine di morte fossero state talmente squalificate dalla storia da non avere più alcuna possibilità di essere ascoltate. Purtroppo non era così. Purtroppo il tempo ha cancellato la memoria delle tragedie e quei sentimenti osceni che erano stati tenuti nascosti per decenni li sento di nuovo risuonare come una musica tragica. Per questo oggi sono idealmente con voi nel chiedere “INTOLLERANZA ZERO” per trasmettere ancora una volta il testimone di un impegno che non è contro qualcuno, ma PER preservare gelosamente i beni comuni della convivenza civile, della democrazia, della libertà, del rispetto delle minoranze, dell'uguaglianza davanti alla legge. Oggi sono conquiste che diamo per scontate, sono un dato di natura come l'aria che respiriamo. Se solo tutti sapessimo - come sa chi fu privato di quell'aria – che valore hanno, le custodiremo non soltanto con forza ma anche con amore.”

 

L'indifferenza di cui parla la Senatrice Segre va strettamente riconnessa con cosa è per noi è empatia e quando scatta o perché a volte non riusciamo a metterla in pratica. Perché qualcosa che non ci coinvolge in prima persona ci coinvolge meno o per niente e quindi ci rende impossibile provare a cambiare le cose in quanto ne avvertiamo la pericolosità e il danno che cagionano simili mentalità o idee.

E quindi per me, acquistano oggi ancora più valore e vigore queste parole, come quando lessi per la prima volta gli scritti di Etty Hillesum:

“Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò più fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se altri non capiranno cos'è in gioco per noi ebrei. Una sicurezza non sarà corrosa o indebolita dall'altra. Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato.” (3 luglio 1942 - pag. 138, Diario 1941-1943- Adelphi 2002)

Il mondo in sfacelo attorno ad Etty la portò a scandagliare la sua vita, il senso dell'esistenza e trovò la sua chiave di resistenza e un nuovo atteggiamento verso la vita: nell'altruismo radicale, sintetizzato nelle ultime parole del suo diario: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Una missione, un'obiettivo di vita che matura in un paio d'anni e si fa sempre più forte, ma soprattutto richiama tutte le nostre forze; così scrive nel giugno 1942:

“Possono renderci la vita un po' spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po' di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci prerseguitati, umiliati, oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l'unica soluzione possibile.” (pag. 127, Diario 1941-1943- Adelphi 2002)

In questo passaggio c'è un tentativo di spronare in modo schietto e anche duro, per far reagire ciascuno partendo da sé, che si sia credenti o meno. Un percorso che prima di essere collettivo è in primis personale, di liberazione da meccanismi mentali che ci fanno solo da zavorra e che diventano nocivi.

Etty trova la sua risposta e la traduce in un impegno personale, a buttarsi a capofitto laddove è più pericoloso, ma dove sa di poter portare un contributo prezioso. Etty scelse di continuare a dare il suo apporto senza risparmiarsi. Etty, cuore pensante della baracca, morì il 30 novembre 1943 ad Auschwitz.

Penso che in questi tempi bui in cui l'odio verbale e non solo dilagano in più ambiti, sia più che mai necessario cercare di intraprendere il percorso che Etty ci suggeriva e non disperdere le energie, ma incanalarle verso una costruzione di una società che conosca e sappia riconoscere gli effetti deleteri dell'odio. Odio che è intolleranza, odio che viene adoperato come panacea e soluzione per lenire i problemi e le crisi, odio che viene alimentato per “curare” ciò che la politica non sempre è capace di affrontare e che poi sfugge di mano. Odio che scorre a fiumi nella dimensione virtuale, ma che ha poi riflessi diretti nella nostra realtà. Basta osservare i grafici elaborati da Vox.

Mappa dell'intolleranza e antisemitismo in Italia - VOX

Picchi messaggi antisemiti su twitter

 

La nostra attenzione e la nostra consapevolezza non può concentrarsi in un'unica giornata, ma deve essere costantemente tenuta viva, con uno sguardo che sappia leggere insieme le matrici comuni di diversi tipi di odio, dalla misoginia, al razzismo, alla xenofobia, dall'antisemitismo all'omofobia.

Generalizzazioni, pregiudizi, stereotipi, facili equivalenze come musulmano=terrorista portano a generare un sistema in cui odio genera odio, in cui superficialmente si affrontano i problemi e si cercano sempre nuovi capri espiatori. In questo sistema tocca a noi, unire le forze, non disperderci e guardare i fenomeni nelle loro interconnessioni.

Questo probabilmente è il senso di sviluppare e di alimentare costantemente una memoria attiva e pro-attiva, capace di alimentarsi da sé, di interrogarsi e di impegnarsi giorno dopo giorno. Un consiglio, un esercizio: il 27 gennaio – Giorno della Memoria per commemorare le vittime dell'Olocausto, trovate uno spazio nella vostra giornata e leggete un libro, una testimonianza.

Riflettiamo su quante volte l'odio fa capolino nella nostra vita, quante volte emerge nel linguaggio quotidiano, di chi incrociamo episodicamente o che frequentiamo, sui media e quanto sottovalutiamo le ricadute delle parole, che spesso possono essere usate come pietre. E noi donne sappiamo quanto possano far male e rivittimizzarci, per indebolirci e sottometterci, per discriminarci e ricondurci indietro. Cercate di scoprire in quante forme può avvenire la negazione dell'altro, attraverso la sua deumanizzazione con varie modalità.

Vi suggerisco uno studio della sociologa Chiara Volpato sulla deumanizzazione (potete trovare un'analisi più approfondita nel suo saggio Deumanizzazione. Come si legittima la violenza 2011, Universale Laterza), che con linguaggio semplice riesce a scandagliare i meccanismi che vengono messi in atto su soggetti e gruppi diversi e in ambiti differenti (troverete anche un'analisi accurata delle tecniche di deumanizzazione degli ebrei nelle pagine de La difesa della razza (1938-1943).

Ma vi sono molteplici forme di deumanizzazione, spesso non così esplicite, più sottili, tanto da passare come “normali” costumi e pensieri. In una particolare forma di deumanizzazione, l'oggettivazione, l’individuo è considerato “un oggetto, uno strumento, una merce”: un fenomeno analizzato non solo da Kant e dalla teoria marxista, ma più recentemente dal pensiero femminista,

“che si è concentrato sulla riduzione della donna a oggetto sessuale (MacKinnon, 1989, 2007; Papadaki, 2007, 2010 – tratto da pag. 315 Chiara Volpato, Article in Psicoterapia e Scienze Umane · May 2013); in tale prospettiva, l’oggettivazione indica il restringimento della valutazione di una persona alla considerazione delle sue funzioni sessuali «che vengono separate dal resto della sua personalità e ridotte allo stato di mero strumento o guardate come se fossero capaci di rappresentarla nella sua interezza» (Bartky, 1990, p. 26). Martha Nussbaum (1999) ha discusso sette dimensioni dell’oggettivazione sessuale: la strumentalità, la negazione dell’autonomia, l’inerzia, la fungibilità, la violabilità, l’essere di proprietà altrui, la negazione della soggettività. Negli ultimi anni si è sviluppata, all’interno della psicologia sociale, una teoria dell’oggettivazione sessuale (Fredrickson & Roberts, 1997; Fredrickson et al., 1998) secondo la quale, quando sono oggettivate, le donne sono portate a interiorizzare la prospettiva dell’osservatore, trattando se stesse come oggetti da valutare sulla base dell’aspetto fisico."

Come si può facilmente verificare, vi sono numerosi punti di connessione che si intrecciano in fenomeni solo apparentemente distanti.

Il giorno dopo il 27 condividete queste vostre riflessioni e fate passa parola. Il senso di responsabilità non può attivarsi solo se la cosa ci tocca da vicino, o a una persona a te cara, se lo hai vissuto tu, perché aver cura dei beni e dei valori comuni è innanzitutto un lavoro di altruismo radicale per usare l'espressione di Etty Hillesum.

Perché è anche questo uno degli aspetti fondamentali dell'essere e dell'impegno femminista.

È la capacità di mettere in atto azioni e pensieri che nascono da uno sguardo empatico, che possiamo chiamare sorellanza, qualcosa che ci permette di lottare insieme, fianco a fianco, per obiettivi che sentiamo comuni, anche se non è necessario aver vissuto in prima persona certe esperienze o problemi. È l'esatto opposto dell'indifferenza.

Ritratto di Simona Sforza

Posted by Simona Sforza

Blogger, femminista e attivista politica. Pugliese trapiantata al nord. Felicemente mamma e moglie. Laureata in scienze politiche, con tesi in filosofia politica. La scrittura e le parole sono sempre state la sua passione: si occupa principalmente di questioni di genere, con particolare attenzione alle tematiche del lavoro, della salute e dei diritti.