Il tempo dell'attesa

L’iter adottivo lungo e complicato non è una necessità, un’indispensabile strada da percorrere, un utile strumento di crescita e consapevolezza. Le lungaggini sono il frutto della burocrazia non della necessità pedagogica.
È una trappola alla quale tutti si sono assuefatti e che ora sembra quasi normale sottostare.

Qualsiasi genitore adottivo sa che uno degli ostacoli più diffidi da superare per giungere ad abbracciare il proprio figlio è senza dubbio quello dell’ATTESA.

Un tempo lungo e spesso incomprensibile che però viene mascherato da “tempo della crescita”, una sorta di periodo di incubazione della consapevolezza, un luogo nel quale permettersi il piacere-dovere della scoperta di noi stessi e della nostra convinzione alla genitorialità.

“Il tempo dell’attesa è un momento straordinario nel quale la coppia può e deve crescere” ho sentito dire più volte ad esperti, addetti ai lavori, genitori convinti.
Ne sono convinto anch’io. Non voglio fare l’estremista affermando che non sia necessario un periodo di “incubazione”, un lasso di tempo che permetta veramente alla coppia di guardarsi dentro e scandagliarsi. Il tempo, ne sono convinto aiuta a crescere ed indubbiamente i genitori adottivi sono “obbligati” a maturare in modo un po’ diverso da quelli naturali. Altre problematiche, altre aspettative.

Quindi, mi pare ovvio che non sia possibile pensare in termini d’adozione con la logica della fretta e dell’egoismo finalizzato a diventare genitori. Ci mancherebbe. Ognuno ha il diritto-dovere di prepararsi ad un evento tanto importante come quello di accogliere un figlio.
Prepararsi pur non essendo per forza pronti, ma certo cosci di quello che si andrà ad affrontare.

Ma spesso (sempre?) il tempo dell’attesa diviene lungaggine inspiegabile “tempo dell’assenza”, tempo della sofferenza e dello sconforto.
Succede quando le lancette dell’orologio si fermano e maledettamente non vogliono più andare avanti ed i mesi del calendario cambiano troppo lentamente, quando si festeggiano capodanni vuoti.
Succede quando ti senti pronto e non squilla il telefono per darti la buona notizia. Succede quando ti senti genitore e non hai nessuno al quale donare questa tua consapevolezza.

Mi è capitato spesso, durante le presentazioni del mio libro, di confrontarmi con chi ritiene che “sia necessario a priori”, che ogni singolo giorno che divide una famiglia sia utile per permettere agli stessi componenti di migliorare il proprio rapporto.

Ovviamente, non sono d’accordo con questo modo di pensare, non trovo sensata
questa logica atta a giustificare un’ingiustizia illuminandola con luce propedeutica.
Frottole, dico io!

Il tempo dell’attesa non nasce da questa esigenza, bensì dalle lungaggini burocratiche che farciscono il viaggio adottivo. Raccontare ai genitori adottivi che quel tempo è sempre necessario è una mancanza di onestà intellettuale.

Ogni coppia e meglio ancora ogni individuo ha tempi di crescita, di metabolizzazione dei concetti e delle esperienza differenti. Non ha quindi alcun senso ragionare per massimi sistemi, proporre ricette preconfezionate, offrire spiegazioni standard.

Ci sono persone che impiegano anni per capire ed altre che invece comprendono i significati profondi con rapidità.
Bellezza del mondo, siamo tutti diversi.

Ecco allora che tutto l’equivoco-teoria del tempo dell’attesa palesa le sue inadeguatezze e le sue pochezze di fronte alle singole realtà delle coppie.
Si attende perché si è obbligati a farlo non perché questo sia indispensabile.

Mitizzare il tempo, a prescindere, come risorsa è un errore e quel che è peggio è un sonora presa in giro.
Non è verò! Non è vero! Non è vero che tutto quel tempo dell’attesa è utile.
È una trappola, una zavorra che spesso sovraccarica le anime dei genitori adottivi, un fardello sotto il quale spesso si rischia di rimanere schiacciati.

“Il tempo che rimane” diviene “tempo dell’assenza”, un sofferenza che lacera e consuma tanto inutilmente quanto inspiegabilmente. Una bruttura fatta patire ai genitori e quel che peggio ai loro figli.

Trovo inutile e vagamente canzonatori i tentativi maldestri di taluni soggetti preposti di imporre questo modo di pensare, questo tentativo di ammantare tutto di ragionevolezza. Non c’è ragionevolezza nell’attesa, non c’è ragionevolezza nella distanza, non c’è ragionevolezza nel distacco, non c’è ragionevolezza nel patimento.

Meglio piuttosto dire le cose come stanno e non caricare di altri dannosi significati questo passo; dare senso al tempo non significa renderlo per forza costruttivo.
C’è indubbiamente un tempo utile ed indispensabile e poi ce ne uno inutile e sofferto che purtroppo va comunque vissuto con forza e con la volontà di resistervi ogni giorno.
Un tempo necessario ed un altro dannatamente insignificante che meriterebbe di scomparire, di far volare via per sempre, che non serve a niente ed a nessuno. Il tempo della lontananza dai nostri figli che attendono.

 

Articolo di Fabio Selini, autore del libro Il padre sospeso - Casa Editrice Mammeonline

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